martedì 5 febbraio 2008

Processo a noi stessi

Noi non avremmo niente da dire, possiamo dire questo
lungamente...Perchè non abbiamo intenzioni...Cosa abbiamo?
Da una parte una rinuncia, dall'altra un'accettazione.
E' cosi, è l'inizio di uno spettacolo: la poltrona o il palco, è cosi.
Qual'è la prima domanda? E' questa: dove siamo? Come si chiama il posto?
Avessimo ancora tempo per distrarci, divagare... L'intervistatore è quello che sta scomodo perchè si sentano più comodi gli intervistati. Dove siamo e quando? Già la stagione non sembra più questa ma la prossima...la fretta criminale dell'artista...E quella frase dell'intervistatore che si congeda e torna da stilista sotto il titolo, sopra la colonna: "Quello che ho mi basta"...
"E il pianto mio?" , pensa l'intervistato, "l'ho detto o non l'ho detto il pianto mio"? Dove siamo? Siamo ancora alla prima domanda.
E già prendiamo questo gioco sul serio ossia vorremmo dire nulla, e senza fretta. Ma per dare un'impressione di serietà,la serietà di un senso, bisogna svelare un segreto,e noi non ci tiriamo indietro. Di cosa stiamo parlando? Di un canone, della forma canzone. Avevamo una base armonica, avevamo la musica a sè stante, mancava l'astuzia, la linea melodica, la persuasiva falsariga del canto.
Avevamo il candore, e l'accettammo. Ciò che toccava a noi:
questo mancava... quindi toccava a noi. Una estesa base armonica, attraente e senza metriche: non avevamo le sillabe ma le qualità, come dire una vita non in punta di dita ma a grandi manciate come remare con le mani in noi.
E' l'accettammo.
Come si dice? Parole... che salgono dal cuore, il cuore sulle labbra, eccetera (riusciremo mai a risvegliare le metafore, ad avere il coraggio di far vivere tutto ciò che accade nel linguaggio ovvero altrove?).
Il gonfio cuore...si dice. E noi accettammo questa diceria, andammo a vedere cosa c'era di vero. Per dare alla diceria la voce. A un passo dal processo, e facemmo quel passo. Quale voce? La voce umana, la voce del corpo, il corpo della voce, unavoce alla quale, più che il senso, può sfuggire l'urlo, il mugolio, il gemito, il lamento, l'urgenza di un sussurro.
"La sua meravigliosa voce arcaica raggiunge la sorgente di ogni suono"...E questa voce vuole presentarsi al canto, al suo processo, senza prove e senza compiacenza. "E la prima volta, è lo stupore, la bocca aperta per la meraviglia"...Senza prove ossia con tutta l'apprensione, quindi l'affetto che è dedicato a un appuntamento, il primo, e sarà sera, la sera della prima (la prima assoluta, assoluta come la solitudine). Come se fosse musica il luogo, e il tempo fosse un tempo musicale, senza riferimenti in un bosco d'archi e cori, e il piano fa lo scriccolo sui rami, e non c'è un clik che venga dalle stelle a misurare, sulla terra, al canto il batter e il levare...Che vuol dire? Che evitiamo l'attenuante del mare, il mare che sta in mezzo tra il dire e il fare.
Qui stiamo tra il fare e il dire. E in mezzo cosa c'è? Il corpo della voce e senza memoria perchè l'interprete per prima si smemora.
Con niente in mente, la luce degli occhi scopra le parole, sul fare del linguaggio, seguito dal suo dire ossia dal canto. Una voce che sarà compositrice...Processo, allora,al canto di canzone, alla registrazione in sè del sentimento, alla memoria come melodia. Un testo che non sia strappato al canto, ossia stampato prima. I fogli in mano a lei.
La voce musicista che è un destino. La scena è gelosia d'inedito tradito. E tutto il resto sembri pure un dare i numeri, enumerando, per esempio,le passioni che il brano porta dentro:
La musica vocale, la parola musicale contabile il respiro, lo stile recitativo, lo stile arioso, la polifonia di cori concitati, la cantata,lo slancio di una voce verso il rischio, il canto che torna indietro,che torna in sè, che torna a una forma prelirica, premelodrammatica, prelibrettistica, anche qui per rinuncia e per accettazione.
Rinuncia, per esempio, all'anedotto narrativo, a quello stare al mondo in un mondo che non sta nè in cielo nè in terra, rinuncia alla canzone come caso umano senza corpo rinuncia al vittimismo sentimentale.
Accettazione di una forma come madrigale al tempo in cui(rivolgendo a noi le parole della musicologia affettuosa)
Cogliemmo la verità degli accenti appassionati...gli accenti, si:
appassionati...Infine: come dire i sentimenti...sapendo che dirli è solamente dirli"come", e allora rinunciare a dirli, e dire la rinuncia. Ma poi, in realtà ossia in scena, dopo i numeri, vorremmo soltanto dare l'anima. O rinunciando ancora all'insulsa praticità di una canzone, essere insulsi noi.
O forse, interprete ed autore , sono due monelli, il che non contraddice, anzi conferma, quanto detto fin qui. E che significa allora tutta questa apparente insofferenza, che forse è qualcosa di più che insofferenza? Che vuol dire(dopo il fare)? E' forse, ancora, una delicatezza, delicatezza di un addio senza litigio. La domanda è sempre la stessa: dove siamo? Non più avanti di questa domanda, è la risposta. Più avanti cosa c'è? C'è forse il vuoto per due scapicollati...Amiamo, forse, la canzone? Può essere ma può anche non essere. Qual 'è la parola più lunga nel testo?
E' "indissolubilmente"... Può essere ma può anche non essere...
Vorremmo improvvisare la nostra fondatezza...toccati dalla grazia violenta del pianto. E' questo, forse, un addio alla canzone? Può essere.
E adesso potremmo cominciare a parlare finalmente del tempo, divagando.

L'INTERPRETE E L'AUTORE.

A.OXA - P.PANELLA

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